Come non farsi sorprendere dalla crisi
- Patrick Trancu
- 11 lug 2011
- Tempo di lettura: 6 min
Riporto qui il testo di una mia intervista appena pubblicata da Notizie Ferpi n° 64/2011
Il doppio disastro che ha colpito il Giappone è solo l’ultima di una lunga serie di crisi che da circa tre anni colpiscono tutti, non solo i Paesi o le aziende interessate. Le crisi sono divenute globali?
Innanzitutto per fortuna non tutte le crisi sono globali. Detto questo non vi è dubbio che pervasività tecnologica, ciclo delle notizie 24/7 e “rete” hanno contribuito in maniera determinante a renderci partecipi di crisi che avvengono in paesi e realtà a noi lontane così come a quelle vicine. Così come non vi è dubbio che crisi di natura ambientale innescate da cause naturali o dall’irresponsabilità delle imprese tendano ormai a raggiungere un audience globale.
Quanto i media sono responsabili dell’universalità di una crisi e quanto lo è l’incapacità di gestirle da parte degli uomini comunicazione?
Il discorso è complesso e le sfaccettature sono molteplici anche perché ciascuna crisi si sviluppa seguendo dinamiche e schemi diversi ed è quindi difficile generalizzare.
Innanzitutto la responsabilità delle gestione di crisi non ricade solo ed esclusivamente sugli “uomini di comunicazione” ma soprattutto sul top management aziendale o, nel caso di disastri naturali, sulla leadership di un determinato paese, provincia o città. Quindi se è pur vero che in una situazione di crisi la comunicazione gioca un ruolo fondamentale, è altrettanto vero che nella migliore delle ipotesi il responsabile comunicazione contribuisce alla formulazione della “risposta” elaborata dal top management e nella peggiore gioca un ruolo marginale di esecutore di decisioni prese da altri.
A mio giudizio sono tre i fattori che determinano la capacità di un’organizzazione di rispondere con successo e superare una situazione di crisi: preparazione, cultura aziendale, leadership.
Che ruolo gioca la Rete e il web 2.0 nella gestione di una crisi?
L’evoluzione tencnologica in generale, e il social web in particolare, hanno nel giro di pochi anni radicalmente trasformato l’approccio alla comunicazione e gestione di crisi che oggi deve quindi tenere conto di un ambiente esponenzialmente più complesso, dinamico e veloce.
Da un lato sono profondamente cambiate le tempistiche. Se solo qualche anno fa le buone pratiche di gestione di crisi imponevano all’organizzazione di comunicare entro 60 minuti dall’evento scatenante, oggi è necessario essere in grado di attivare il flusso di comunicazione nel giro di pochi minuti. Dall’altro, se solo dieci anni fa era ipotizzabile raggiungere i propri stakeholder attraverso 4 piattaforme mediatiche tradizionali (agenzie, radio, tv, carta stampata) e una digitale – ovvero il sito internet aziendale – con un flusso essenzialmente unidirezionale, oggi bisogna pronti ad essere operativi sulle piattaforme tradizionali e su un minimo di ulteriori 12 piattaforme digitali dove è necessario gestire un processo dinamico e interattivo in uscita, e di ascolto e analisi in ingresso.
Non solo. Gli stakeholder si sono moltiplicati e, proprio grazie alla rete, sono in grado di dialogare tra di loro in tempo reale, scambiandosi informazioni e partecipando attivamente agli avvenimenti in maniera autonoma in base alle informazioni alle quali sono in grado di accedere o delle quale sono in possesso in quel determinato istante.
La partecipazione alla crisi da parte di un numero crescente di attori/spettatori su molteplici piattaforme implica tempi di gestione serrati e competenze tecniche. Ma implica anche, fattore troppo spesso sottovalutato, risorse umane numericamente sufficienti. Per usare una metafora, gestire oggi la comunicazione di crisi equivale a giocare contemporaneamente una partita di scacchi con centinaia di sfidanti dislocati su piani diversi di un medesimo edificio. Appare quindi del tutto evidente che i tempi dell’improvvisazione sono finiti e che è necessario per le imprese investire in programmi continuativi di preparazione alla gestione di crisi.
Qual'è, se c'è, il minimo comun denominatore delle diverse crisi che ci hanno coinvolto?
Innanzitutto ritengo sia necessario fare una premessa. Il termine crisi è oggi inflazionato e banalizzato, al punto da aver perso il proprio significato. Troppo spesso oggi gli eventi vengono proiettati in una dimensione di “crisi” anche quando mancano i presupposti. Ritengo quindi utile ricordare che – nella definizione d Timoth Coombs - a mio avviso una delle migliori - “una crisi è la percezione di un evento non prevedibile che mette in pericolo le aspettative degli stakeholder e che può seriamente compromettere la capacità operativa di un’organizzazione con conseguenze negative” .
Ritengo che le grandi crisi abbiano oggi 3 elementi in comune: diventano pubbliche e si espandono a macchia d’olio e a velocità istantanea attraverso la rete, sono amplificate dal sistema dell’informazione 24/7 e si alimentano grazie alla partecipazione attiva e alla testimonianza di quanti sono colpiti dalla crisi stessa. Se vogliamo semplificare ulteriormente: istantaneità, comunicazione per immagini, compartecipazione attiva.
Quali, invece, gli strumenti per fronteggiarla?
Gli strumenti classici del crisis managment come ad esempio il manuale, il comitato di crisi, la situation room sono a mio giudizio oggi obsoleti e inadeguati. Sono sempre più convinto che sia necessario sviluppare un nuovo approccio al crisis management seguendo logiche di rottura rispetto al passato, con strumenti snelli e soprattutto mirando a formare la “cultura di gestione di crisi”. E’ infatti soltanto attraverso una trasformazione del DNA aziendale che è possibile dare vita a meccanismi automatici di reazione in grado di portare l’impresa alla formulazione di risposte tempestive, efficaci e soprattutto etiche, prerequisiti questi a mio giudizio fondamentali per affrontare e superare con successo tali situazioni.
Nel caso di crisi in cui si viene coinvolti, quali sono i segnali o meglio le variabili da monitorare per non farsi trovare impreparati?
L’unico modo per non farsi trovare impreparati in una situazione di crisi è di investire in un programma serio e rigoroso di preparazione alla gestione crisi che preveda la piena partecipazione del top management aziendale. Senza quest’ultimo infatti, qualsiasi programma di formazione è destinato a fallire. Il programma deve inoltre porsi come obiettivo, come ho illustrato in precedenza, la creazione di una “cultura aziendale” sensibile alla gestione del rischio e, conseguentemente, alla gestione di crisi.
A corredo dell’attività di formazione è tuttavia necessario strutturare anche un sistema di allerta, di monitoraggio e di issues management.
Tranne il caso di eventi naturali, se e come si può prevedere una crisi?
Sono personalmente convinto che ogni crisi sia caratterizza da prodromi. Il vero problema è quindi quello di avere un sistema in grado di coglierli. Spesso, nel corso delle indagini post crisi, emergono comportamenti, fatti, segnali che se fossero stati colti per tempo avrebbero permesso di prevenire la crisi. Se andiamo a leggere i documenti relativi ad alcune delle crisi più recenti dal Golfo del Messico al Giappone, dalla vicenda Parmalat al crac Lehman i prodromi erano evidenti. Nessuno tuttavia li ha colti (o ha voluto coglierli).
Dal suo osservatorio privilegiato quanto le aziende si sono attrezzate ad affrontare una crisi rispetto al passato?
Anche in questo caso è difficile generalizzare. Certamente le imprese italiane che operano sui mercati internazionali, ed in particolare quelli anglosassoni, hanno fatto – obtorto collo - passi in avanti. La maggioranza tuttavia continua ad essere completamente impreparata – e non solo a livello delle PMI - così come ancora troppo spesso sono completamente assenti i piani di continuità aziendale (business continuity). Se la cosa può fare piacere non è che la situazione all’estero sia molto migliore: una cosa è avere un piano di gestione di crisi in un cassetto, altra cosa è essere in grado di articolare le risposte giuste al momento giusto.
Alcune organizzazioni sempre più di frequente sono interessate, direttamente o indirettamente, da più crisi contemporaneamente. Come fare ad agire su più fronti?
Il 21 Secolo è iniziato all’insegna dell’instabilità che, a mio giudizio, sarà l’elemento caratterizzante della nostra epoca per alcuni decenni a venire. In questo contesto è fondamentale essere pronti a gestire situazioni di crisi articolate e contemporanee, non solo a livello aziendale ma anche a livello personale o familiare.
Ancora una volta la preparazione alla gestione di crisi appare essere l’unica strada percorribile, adottando tuttavia approcci che si basano sulla gestione decentralizzata rispetto al quella centralizzata. Quest’ultima infatti ritegno non solo non sia in grado di attivare la risposta con sufficiente velocità ma anche incapace di gestire il gap culturale, soprattutto quando parliamo di aziende internazionalizzate.
Quanto l’istituzionalizzazione della comunicazione, come funzione consultiva della governance, ancor prima che operativa, consente di affrontare al meglio una crisi?
L’istituzionalizzazione della comunicazione di per se non garantisce una migliore capacità di affrontare una crisi. A mio avviso soltanto una “cultura” della gestione del rischio che pervade tutta l’organizzazione dal CDA al neoassunto rappresenta una garanzia per affrontare con migliori chance di successo una crisi.