Crisis management: #Costa Crociere, un problema di cultura

A circa un mese dal tragico naufragio della Costa Concordia i contorni della vicenda appaiono ancora piuttosto confusi e molto, a mio personale giudizio, resta ancora da chiarire soprattutto sul fronte delle responsabilità della compagnia di navigazione, del suo management e della capogruppo Carnival.

Ciononostante appare del tutto evidente che, a prescindere dai comportamenti del Comandante sui quali si esprimerà la magistratura, Costa Crociere abbia gestito la fase di emergenza senza la necessaria professionalità e preparazione. E in questo contesto sbagliano a mio avviso i colleghi come Beppe Facchetti, Presidente Assorel che nel suo articolo sul sito FERPI definisce l’evento “quasi senza precedenti”. Il crisis management si fonda infatti sulla messa a punto di meccanismi di intervento e risposta basati su quelli che nella cultura anglosassone si chiamano i “worst case scenario”. Uno degli elementi fondamentali della preparazione alla gestione di crisi sta quindi nella capacità di “immaginare” tali scenari e nell’individuazione delle potenziali concatenazioni di ulteriori eventi nefasti e destabilizzanti, traducendo successivamente i “key learnings” in nuove procedure operative. In altre parole, in fase di preparazione, è necessario continuamente valutare lo scenario in un’ottica “what if…” riconducendo poi il percorso di conoscenza così acquisito alla realtà operativa.

Con questi presupposti, non stupisce quindi che la gestione della comunicazione da parte di Costa Crociere sia stata caratterizzata da tempistiche, modalità e contenuti assolutamente inadeguati. Questo per non parlare dello sforzo sul fronte internazionale, a mio giudizio “disastroso”, frutto di una visione “provinciale” tipica del nostro paese. E anche in questo caso dissento dalle valutazioni di Beppe Facchetti quando parla di presidio della situazione come “da manuale”. “L’eccezionale” team di comunicazione schierato ha infatti dimostrato diversi limiti, ma uno insuperabile: la mancanza di esperienza nella gestione di crisi con perdita di vite umane, con ramificazioni internazionali e con appeal mediatico così forte. Scrive Patrick Lagadec in uno dei suoi libri: “Per gestire una crisi occorre sapere imparare rapidamente. Per imparare rapidamente nel corso di una crisi è necessario aver imparato molto prima”.

La lezione deve quindi essere chiara per tutti: se non ci sei già passato, non sei in grado di individuare le priorità, di fornire consigli validi al cliente e di governare credibilmente la comunicazione. Forse Beppe Facchetti intendeva suggerire che la gestione della comunicazione è avvenuta seguendo “il manuale” di crisi, e questo spiegherebbe una serie di errori sul fronte dei contenuti come ad esempio quello di parlare delle certificazioni ISO ambientali ottenute da Costa Crociere mentre nella pancia della nave sono stivate 2400 tonnellate di carburante pronte a sversarsi in mare. Se nella tragedia non si fossero perse vite umane, si potrebbe forse anche sorridere.

Potremmo dilungarci in meticolose analisi sul caso della Costa Concordia, analizzando nel dettaglio azioni, tempistiche, contenuti, esercizio per altro egregiamente svolto dal collega Luca Poma. Un esercizio che auspico venga comunque condotto dalla stessa Costa Crociere e dai suoi consulenti, nella speranza di poter assistere in un prossimo futuro ad un cambiamento “culturale”.

Desidero invece cogliere spunto dai tragici eventi del Giglio per allargare la riflessione.

  1. L’uso del termine “crisi”. Come ho più volte scritto, il termine “crisi” è da anni impropriamente utilizzato, in primis proprio da noi comunicatori ma anche dai mass media, per descrivere qualsiasi problematica (“issue”) aziendale. Questo ha portato nel tempo ad una banalizzazione del termine, e, di conseguenza, delle professionalità e delle caratteristiche umane necessarie per affrontare con serietà le reali situazioni di emergenza.
  2. Crisis management vs crisis communications. La banalizzazione di cui sopra accompagnata da un lato da una scarsa comprensione delle metodologie che sono alla base di una corretta preparazione alla gestione di crisi e dall’altro da un’assenza di “cultura” della gestione del rischio ha avuto un secondo effetto. Ovvero quello di rendere indistinguibile la linea che divide la gestione della crisi dalla comunicazione di crisi. E qui mi trovo perfettamente d’accordo con Beppe Facchetti quando sottolinea che la comunicazione è uno “strumento” e, aggiungo io, non la panacea che risolve tutti i problemi. Come ben evidenzia il caso Costa Crociere, un’efficace “comunicazione” di crisi non può prescindere da un’adeguata “gestione” della crisi.
  3. Siamo tutti esperti di “crisis”. Il terzo effetto della banalizzazione del termine “crisi” riguarda le professionalità necessarie ad affiancare i clienti in situazioni critiche. Non esiste infatti oggi in Italia un agenzia di RP che non offra tra i propri servizi il “crisis management”. Ultimi arrivati i pseudo esperti di social media che dall’alto della loro esperienza (quale?) dispensano (in rete) critiche e suggerimenti. Dobbiamo chiederci onestamente da dove nascono tutte queste competenze, considerato che il numero di crisi vere e reali degli ultimi 10 anni è piuttosto esiguo. In occasione di un seminario introduttivo al crisis management organizzato da FERPI a Milano ho chiaramente sottolineato ai partecipanti che questa non è un’area di competenza nella quale ci si può improvvisare. La comunicazione di crisi non è la gestione di un ufficio stampa. In una situazione di crisi la capacità del cliente di gestire la situazione dipende in larga misura dalla capacità del professionista di fornire consulenza ed operatività. Tra tutte le discipline delle RP, è nel crisis management che facciamo la differenza soprattutto quando sono in gioco vite umane. E per fare la differenza, oltre a conoscere la metodologia e avere acquisito esperienza, è necessario possedere delle doti personali: capacità di lavorare in condizioni elevate di stress per periodi di tempo prolungati, capacità di anticipare la concatenazione possibile degli eventi, conoscenza delle piattaforme di comunicazione, capacità di organizzare e coordinare un team di lavoro ampio, autorevolezza nel presentare le proprie analisi al top management per indirizzarne le azioni, autocontrollo, sensibilità umana, leadership. Il profilo sbagliato compromette la capacità dell’organizzazione di rispondere con efficacia. Capitano Schettino docet.
  4. Crisis communications vs spinning. Il quarto aspetto che desidero enfatizzare è di natura culturale e riguarda ancora una volta l’uso improprio della terminologia. Mi riferisco qui al concetto di “spinning” o a quello di “spin doctors” erroneamente proposto come modello o sinomino “crisis management” anche ahimè in una serie di articoli pubblicati sul sito FERPI. Pensare che sia possibile e auspicabile per un azienda superare situazioni di crisi “manipolando” le informazioni anziché assumersi la responsabilità per gli eventi è espressione di una scuola di pensiero, purtroppo comune se non prevalente in questo paese, che dobbiamo in qualità di professionisti rifiutare. Alla base del crisis management deve esserci una visione “responsabile ed etica” dell’impresa.
  5. Semper paratus. “Il tema fondamentale della organizzazione della sicurezza: scialuppe che non scendono, personale che non sa cosa fare, scarsa preparazione a gestire l’emergenza, ordini maldestri come quello assurdo di tornare nelle cabine. La confusione che c’è stata rivela un’incredibile trascuratezza nell’applicazione delle norme di sicurezza. Invece questo settore va organizzato prima con esercitazioni e simulazioni, e l’emergenza gestita dopo”. Sono queste le parole del Procuratore Generale della Toscana, Beniamino Deidda. Parole di buon senso che sottolineano come sia importante non solo scrivere un bel manuale di gestione di crisi ma sopratutto sincerarsi attraverso un processo di esercitazione che – in una situazione di emergenza – tutte le funzioni siano in grado di svolgere il proprio compito.
  6. Non basta essere pronti, è necessario avere “cultura”. Il crisis management non è costituito da una serie di tecniche o procedure implementate correttamente. Il crisis management è la logica conseguenza di una cultura aziendale sensibile alla gestione del rischio. La preparazione alla gestione di crisi rappresenta il percorso migliore per aiutare le imprese a sviluppare una cultura della gestione e della comunicazione di crisi, per permettere all’organizzazione di sviluppare “i corretti meccanismi di reazione nelle tempistiche giuste”.
  7. La Responsabilità Sociale dell’Impresa. Da diversi anni parliamo e sentiamo parlare di Responsabilità Sociale dell’Impresa. Ma la preparazione alla gestione e alla comunicazione di crisi non dovrebbe essere la prima attività messa in campo da un’azienda che si dice “socialmente responsabile”?

Nel corso degli ultimi 15 anni siamo collettivamente riusciti a trasformare le relazioni pubbliche da professione a “commodity” dove la principale variabile è ormai dettata dal costo e dove chiunque può improvvisarsi “consulente”. Cerchiamo responsabilmente di non fare la stessa cosa con il “crisis management”.

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2 risposte su “Crisis management: #Costa Crociere, un problema di cultura”

  1. Ciao Patrick,
    grazie della segnalazione, bell’articolo!
    Hai proprio ragione quando dici che il termine “crisi” è da anni impropriamente utilizzato e che un’efficace “comunicazione” di crisi non può prescindere da un’adeguata “gestione” della crisi. Ma la cosa più allarmante è che oggi la figura dell’esperto di crisi è sempre più minacciata da improvvisatori del mestiere, mentre per svolgere questa professione correttamente occorrono esperienza e competenze specifiche, oltre ad una attitudine mentale, ovvero la creazione di una “cultura” della gestione di crisi, elemento quest’ultimo sempre più assente!

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